RiccardoCondòEditore apre la nuova collana di narrativa italiana e internazionale con la seconda edizione del romanzo “Non voltarti” di Rosina Quaranta, pubblicato per la prima volta nel 2018 per il marchio “Ipersegno” della casa editrice, con una nuova veste grafica e con una revisione del testo curata dalla stessa autrice.
Il libro è tratto da una vicenda realmente accaduta: la storia di un abuso che interrompe il lineare scorrimento del tempo. Ma il romanzo è ben altro, è il desiderio, o meglio la necessità, di sovvertire il corso e l’immutabilità del vissuto, per restituire il presente alla protagonista.
Una bambina di nove anni, una ragazza adolescente e una giovane professoressa si incontreranno nella loro corsa che, per quanto affannata e disperata, non sarà mai una fuga. Sarà un ritorno a casa. Le tre protagoniste si muovono nelle stanze del tempo, che affacciano l’una nell’altra, separate da porte senza battenti.
Una bambina di nove anni corre, inseguita da un uomo troppo più grande di lei. Sa che deve correre e non fermarsi. Sa che non deve voltarsi.
Firenze. Due sveglie suonano in case diverse, alla stessa ora ma in due differenti dimensioni temporali.
Beatrice è una studentessa di liceo, al suo primo giorno nella nuova scuola. Classe 3A. I suoi compagni di classe sono “fiorentini con la puzza sotto il naso”, “stronzetti che se la tirano”, svogliati e ricchi. E lei ricca non è. I suoi vestiti non sono al passo con i tempi. Lei non è al passo con i tempi. Beatrice trascorre le giornate sui libri, nella personale convinzione, poco condivisa in quella scuola, che la cultura sia lo strumento più potente di civilizzazione e di libertà. Dal suo posto in prima fila, Beatrice non può fare a meno, inevitabilmente, di essere attirata dai banchi in ultima fila e da due occhi lontani, di un “azzurro mai visto prima”. Ma lei non può permettersi di scavalcare il confine tra quelle distanti due file di banchi, perché troppe sono le voci che si alzano e troppe sono le dita puntate. Lei è altro da loro, e la diversità è colpa.
Un’insegnante di italiano e latino si drizza a sedere sul letto. È il suo primo giorno di scuola. Scuola paritaria, in cui i ragazzi danno per scontata la sufficienza in pagella e nella aule “le voci, la polvere del gesso, i versi di Dante e le palline di carta” si sollevano verso l’alto, mattina dopo mattina. In piedi dietro la cattedra, la sua attenzione non può fare a meno di spostarsi dalla prima all’ultima fila, fino a quei due occhi lontani, di “un azzurro mai visto prima”. Ma lei non può permettersi di scavalcare il confine tra la cattedra e quelle file di banchi, perché troppe sono le voci che si alzerebbero e troppe sarebbero le dita puntate. Lei è altro da loro. Lei è altro da lui. E la diversità, in questo caso, potrebbe trasformarsi in peccato.
La scuola come un crocevia di storie, di spazio e di tempo, in cui è ancora possibile una qualsiasi forma di salvezza, contro gli abusi, contro la vigliaccheria, contro l’anonimato delle masse, contro il bullismo, contro l’emarginazione, contro la discriminazione, contro la maleducazione, contro la mancanza di gentilezza, contro l’incapacità di ascoltare, contro la paura di amare. La cultura come inizio di una nuova civiltà.
Arrivati alla fine del romanzo, avrete solo iniziato a leggerlo. Il consiglio è di tornare indietro, alla prima pagina, alla prima porta. Lo troverete diverso, pur nell’immutabilità della parola stampata.
Prima di lasciarvi alla lettura, poche parole sull’autrice.
Rosina Quaranta insegna Lettere, come una delle protagoniste, ed è dottoressa di ricerca in Italianistica. La sua formazione avrebbe potuto rappresentare un rischio per l’autrice, compromettendo e influenzando lo stile di questo romanzo volutamente distante dai canoni. Tutto ciò non è accaduto: la sua frequentazione con i classici si è trasformata in solide fondamenta su cui ha edificato uno splendido e complesso castello narrativo, le cui stanze susciteranno in voi sempre nuovo stupore, ogni volta che deciderete di riattraversarle.
Riccardo Condò
Nota critica di Samuele Mathison
Un labirinto narrativo, in cui le vie di entrata e di uscita corrispondono. Per orientarsi bisogna necessariamente perdersi negli spazi della sintassi e del linguaggio, prima di trovare la formula risolutrice.
Nella prima parte del romanzo, la presenza ricorrente del punto fermo si fa carico di una frantumazione sintattica che nega la possibilità di una ricostruzione lineare e logica della memoria. Il lavoro di assemblaggio dei ricordi è rapido e faticoso allo stesso tempo e il ricorso alla punteggiatura diventa l’unico modo per garantire un lungo respiro al lettore, tra una corsa e l’altra. La memoria, nel suo riaffiorare, spesso si trasfigura, tende a dileguarsi, come i sogni che al risveglio non riusciamo a trattenere, e la mente si ingegna per conservare un’immagine, una sensazione, ripetendola a se stessa più e più volte. Retoricamente, questo sforzo disperato è reso visibile dalle numerose ripetizioni all’interno del testo, dalle anafore e dalle anadiplosi, che si metaforizzano in flash di immagini che appaiono e scompaiono, per poi riapparire più vivide e più stabili.
Nella seconda parte, la mente si è allenata, fortificata, consolidata, e il passato è in grado di riemergere, meno tremolante e più compatto. Anche la memoria ha i suoi tempi e nel corso del testo si fa sempre più distesa, insieme alla sintassi, in un periodare limpido e lineare, che finalmente orienta il lettore e lo guida verso l’uscita. Nelle pagine finali non solo le frasi trovano la loro giusta misura, anche i personaggi, i quali arrivano, dopo un lungo andirivieni tra passato, presente e futuro, a riconoscersi nello spazio e nel tempo e ad aderire ai loro ruoli, in un sacrificio ultimo di risistemazione della coscienza.
Dal punto di vista del linguaggio, la narrazione oscilla tra un registro basso e colloquiale e uno alto e letterario, quasi a voler unire la terra degli uomini e la terra dei poeti. La voce narrante si fa a tratti realistica, nell’aderenza ai moduli del linguaggio giovanile – in un susseguirsi di dialoghi diretti e immediati che, pagina dopo pagina, assolvono alla funzione di vero e proprio coro –, e a tratti letteraria, con suggestioni da prosa lirica.
Rosina Quaranta è nata ad Atri, in Abruzzo, nel 1981. Ha conseguito la laurea in Lettere e il Dottorato Internazionale in Italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è docente di italiano e latino.
Il libro è tratto da una vicenda realmente accaduta: la storia di un abuso che interrompe il lineare scorrimento del tempo. Ma il romanzo è ben altro, è il desiderio, o meglio la necessità, di sovvertire il corso e l’immutabilità del vissuto, per restituire il presente alla protagonista.
Una bambina di nove anni, una ragazza adolescente e una giovane professoressa si incontreranno nella loro corsa che, per quanto affannata e disperata, non sarà mai una fuga. Sarà un ritorno a casa. Le tre protagoniste si muovono nelle stanze del tempo, che affacciano l’una nell’altra, separate da porte senza battenti.
Una bambina di nove anni corre, inseguita da un uomo troppo più grande di lei. Sa che deve correre e non fermarsi. Sa che non deve voltarsi.
Firenze. Due sveglie suonano in case diverse, alla stessa ora ma in due differenti dimensioni temporali.
Beatrice è una studentessa di liceo, al suo primo giorno nella nuova scuola. Classe 3A. I suoi compagni di classe sono “fiorentini con la puzza sotto il naso”, “stronzetti che se la tirano”, svogliati e ricchi. E lei ricca non è. I suoi vestiti non sono al passo con i tempi. Lei non è al passo con i tempi. Beatrice trascorre le giornate sui libri, nella personale convinzione, poco condivisa in quella scuola, che la cultura sia lo strumento più potente di civilizzazione e di libertà. Dal suo posto in prima fila, Beatrice non può fare a meno, inevitabilmente, di essere attirata dai banchi in ultima fila e da due occhi lontani, di un “azzurro mai visto prima”. Ma lei non può permettersi di scavalcare il confine tra quelle distanti due file di banchi, perché troppe sono le voci che si alzano e troppe sono le dita puntate. Lei è altro da loro, e la diversità è colpa.
Un’insegnante di italiano e latino si drizza a sedere sul letto. È il suo primo giorno di scuola. Scuola paritaria, in cui i ragazzi danno per scontata la sufficienza in pagella e nella aule “le voci, la polvere del gesso, i versi di Dante e le palline di carta” si sollevano verso l’alto, mattina dopo mattina. In piedi dietro la cattedra, la sua attenzione non può fare a meno di spostarsi dalla prima all’ultima fila, fino a quei due occhi lontani, di “un azzurro mai visto prima”. Ma lei non può permettersi di scavalcare il confine tra la cattedra e quelle file di banchi, perché troppe sono le voci che si alzerebbero e troppe sarebbero le dita puntate. Lei è altro da loro. Lei è altro da lui. E la diversità, in questo caso, potrebbe trasformarsi in peccato.
La scuola come un crocevia di storie, di spazio e di tempo, in cui è ancora possibile una qualsiasi forma di salvezza, contro gli abusi, contro la vigliaccheria, contro l’anonimato delle masse, contro il bullismo, contro l’emarginazione, contro la discriminazione, contro la maleducazione, contro la mancanza di gentilezza, contro l’incapacità di ascoltare, contro la paura di amare. La cultura come inizio di una nuova civiltà.
Arrivati alla fine del romanzo, avrete solo iniziato a leggerlo. Il consiglio è di tornare indietro, alla prima pagina, alla prima porta. Lo troverete diverso, pur nell’immutabilità della parola stampata.
Prima di lasciarvi alla lettura, poche parole sull’autrice.
Rosina Quaranta insegna Lettere, come una delle protagoniste, ed è dottoressa di ricerca in Italianistica. La sua formazione avrebbe potuto rappresentare un rischio per l’autrice, compromettendo e influenzando lo stile di questo romanzo volutamente distante dai canoni. Tutto ciò non è accaduto: la sua frequentazione con i classici si è trasformata in solide fondamenta su cui ha edificato uno splendido e complesso castello narrativo, le cui stanze susciteranno in voi sempre nuovo stupore, ogni volta che deciderete di riattraversarle.
Riccardo Condò
Nota critica di Samuele Mathison
Un labirinto narrativo, in cui le vie di entrata e di uscita corrispondono. Per orientarsi bisogna necessariamente perdersi negli spazi della sintassi e del linguaggio, prima di trovare la formula risolutrice.
Nella prima parte del romanzo, la presenza ricorrente del punto fermo si fa carico di una frantumazione sintattica che nega la possibilità di una ricostruzione lineare e logica della memoria. Il lavoro di assemblaggio dei ricordi è rapido e faticoso allo stesso tempo e il ricorso alla punteggiatura diventa l’unico modo per garantire un lungo respiro al lettore, tra una corsa e l’altra. La memoria, nel suo riaffiorare, spesso si trasfigura, tende a dileguarsi, come i sogni che al risveglio non riusciamo a trattenere, e la mente si ingegna per conservare un’immagine, una sensazione, ripetendola a se stessa più e più volte. Retoricamente, questo sforzo disperato è reso visibile dalle numerose ripetizioni all’interno del testo, dalle anafore e dalle anadiplosi, che si metaforizzano in flash di immagini che appaiono e scompaiono, per poi riapparire più vivide e più stabili.
Nella seconda parte, la mente si è allenata, fortificata, consolidata, e il passato è in grado di riemergere, meno tremolante e più compatto. Anche la memoria ha i suoi tempi e nel corso del testo si fa sempre più distesa, insieme alla sintassi, in un periodare limpido e lineare, che finalmente orienta il lettore e lo guida verso l’uscita. Nelle pagine finali non solo le frasi trovano la loro giusta misura, anche i personaggi, i quali arrivano, dopo un lungo andirivieni tra passato, presente e futuro, a riconoscersi nello spazio e nel tempo e ad aderire ai loro ruoli, in un sacrificio ultimo di risistemazione della coscienza.
Dal punto di vista del linguaggio, la narrazione oscilla tra un registro basso e colloquiale e uno alto e letterario, quasi a voler unire la terra degli uomini e la terra dei poeti. La voce narrante si fa a tratti realistica, nell’aderenza ai moduli del linguaggio giovanile – in un susseguirsi di dialoghi diretti e immediati che, pagina dopo pagina, assolvono alla funzione di vero e proprio coro –, e a tratti letteraria, con suggestioni da prosa lirica.
Rosina Quaranta è nata ad Atri, in Abruzzo, nel 1981. Ha conseguito la laurea in Lettere e il Dottorato Internazionale in Italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è docente di italiano e latino.